Il romanziere e autore della pièce si racconta a italiana.
Come ho scritto “Quasi Grazia”. Intervista a Marcello Fois
a cura di Laura Pugno
Marcello Fois, cosa ha significato per lei, come scrittore, misurarsi con la figura di Grazia Deledda e quali sono le ragioni di attualità della figura di questa scrittrice per il pubblico italiano e soprattutto per il pubblico internazionale? C’è stata una scoperta, una riscoperta, o piuttosto un percorso di continuità?
Un autore che si rispetti non ha grande interesse per quelle che si potrebbero giustamente definire “ragioni di attualità”, nel senso che tali ragioni non sono quasi mai alla base del successo, o dell’insuccesso di uno scrittore. Grazia Deledda in Italia più che all’estero è negletta sostanzialmente perché non supportata da un adeguato e strutturato riconoscimento. La Deledda rappresenta per il nostro Paese un’emergenza critica. Non è la sola, e, bisogna dire, per la maggior parte dei casi, è accompagnata sostanzialmente da colleghe. Matilde Serao, Sibilla Aleramo, Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Gianna Manzini, Elsa Morante, Lalla Romano, per citarne alcune, hanno sofferto di una forma di “diminuitio” che è stata sperimentata a partire dalla Deledda nei confronti di quelle autrici difficili, se non impossibili, da rubricare nell’ambito di una scrittura genericamente contingente, d’intrattenimento, se non espressamente didattica. Con la Deledda ci si è trovati per la prima volta a fare i conti con un’autrice che declinava il suo mestiere anche in termini di progetto letterario, voleva parlare all’universo dei lettori e non esclusivamente alle categorie di riferimento: donne da educare o intrattenere. Il Nobel, anziché smorzare questa tendenza l’ha acuita. Nelle nostre antologie scolastiche è impossibile non citare la Deledda, ma ancora si fa con l’imbarazzo di chi giudica l’altra metà del nostro cielo letterario con pregiudizio. Il punto è che la Deledda non si accorda con nessuna delle istanze letterarie e stilistiche del suo tempo ascritte a quelle temerarie che ardissero al mestiere della letteratura. Oggi i sistemi sono cambiati, la mentalità diffusa pare essersi evoluta, tuttavia certi pregiudizi sono duri a morire. Ma bisogna farsene una ragione: la Deledda resta la prima e unica donna che abbia mai ricevuto il premio Nobel per il nostro Paese e, dato non secondario, l’unica che l’abbia preso per la narrativa, non per il teatro o per la poesia come tutti gli altri colleghi maschi. La narrativa Nobel in Italia ancora oggi ha solo un nome: Grazia Deledda.
Cosa ha rappresentato la scrittura di “Quasi Grazia”, come pièce per il teatro e come indagine nella vita e nell’universo poetico e letterario di Grazia Deledda, per la sua traiettoria di scrittore e di romanziere?
“Quasi Grazia” è stata per me una sorta di autoanalisi. Attraverso la vicenda umana e stilistica di questa grandissima concittadina, ho capito molte cose della mia personale vicenda di scrittore. La scelta della forma teatrale è stata d’obbligo perché si accorda con la cultura orale da cui provengo, che è la stessa da cui proviene Deledda, sono nato poco distante da casa sua e poco distante dalla casa di Salvatore Satta, altro nuorese che ha dato moltissimo alla nostra letteratura. Si è trattato dunque di un preciso percorso à rebours dentro ai motivi e alle spinte che mi hanno fatto geneticamente scrittore. Una specie di fiducia ostinata nell’impossibile che ho elaborato attraverso l’esperienza di Grazia Deledda.
Quali sono i suoi rapporti con le altre letterature, la traduzione, in generale con l’estero e come si può portare, in modo sempre più efficace, il libro italiano nel mondo, sia che si tratti di autori classici che di classici del Novecento o di contemporanei?
Ho il privilegio di essere un autore molto tradotto. Negli anni mi sono convinto che non esista una “tattica” che renda più appetibile un’opera per l’estero. Voglio pensare al contrario che l’autenticità del temi, la bellezza della scrittura, la forza di un progetto letterario restino valori universalmente riconosciuti. Nel tempo ho imparato a considerare coautori i miei traduttori, sono la mia lingua in un luogo dato, hanno una responsabilità che è anche creativa non solo compilativa. Per questa ragione sono di quegli scrittori che preferiscono collaborare col traduttore e, in molti casi, instaurare un rapporto personale oltre che professionale. Bisogna considerare che l’estero ha un’idea della scrittura italiana, compresa quella contemporanea, o, peggio, attuale, assai diversa da quella che abbiamo noi. Molti dei nostri autori che non entrano nelle classifiche nazionali sono ai primi posti nei Paesi in cui vengono tradotti. Ora i maligni potrebbero affermare che ciò sia merito dei traduttori, può essere, ma sta di fatto che alcune nostre attuali superstar editoriali agiscono in un tale piccolo cabotaggio che all’estero non sono nemmeno percepiti. L’unica promozione che abbia un senso e che garantisca ritorno e stabilità è quella incentrata sulla qualità. Un investimento sulla durata non sul successo temporaneo. Questo posso dire sia stato un valore che ho imparato, fra gli altri, anche da Grazia Deledda.