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Commento d'autrice. Caterina Soffici su "Ritratti di donne"
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Commento d’autrice. Caterina Soffici su “Ritratti di donne”

Categorie: Cultura e creatività -Cinema e Audiovisivo -Editoria e Letteratura

a cura di Laura Pugno

 

Caterina Soffici,  scrittrice e giornalista, vive tra Londra e l’Italia. Editorialista de La Stampa, collabora con Tuttolibri, Vanity Fair e altri giornali. Crede nel potere delle parole di cambiare il mondo e per questo tiene corsi di scrittura al Ministry of Stories, il laboratorio di East London per bambini e ragazzi di ambienti svantaggiati, dove si lavora sulla creatività, il racconto e la memoria. Per Feltrinelli ha pubblicato “Ma le donne no” (2010), “Italia yes Italia no” (2014) e il romanzo “Nessuno può fermarmi” (2017). L’ultimo romanzo, “Quello che possiedi” (Feltrinelli  2021), è ambientato a Firenze. Qui commenta il nostro progetto “Ritratti di donne“.

 

Caterina Soffici, come legge e interpreta, alla luce della sua attività letteraria e giornalistica, un’iniziativa come “Ritratti di donne”? Cos’è cambiato dai tempi di “Ma le donne no”?

Trovo che ogni iniziativa di qualità che promuova l’immagine e il lavoro delle donne italiane sia sempre benvenuta. Sappiamo come le donne – nel nostro Paese più che altrove – siano una risorsa poco valorizzata e considerata. “Ma le donne no” è uscito nel 2010 e raccontava l’Italia come un Paese stretto nella morsa del patriarcato e del maschilismo. Complice anche la pandemia la situazione per le donne è in generale peggiorata. È vero che sempre più spesso si legge di donne al vertice, di brave professioniste che riescono a emergere nel proprio campo, ma a compensare questa ascesa di eccellenti e di “numeri uno”, c’è una discesa delle donne comuni, che hanno sopportato il peso della Dad (Didattica a distanza), delle famiglie chiuse in casa, della cura e del doppio lavoro (chi ancora ce l’ha). Io credo che la battaglia culturale per la liberazione della donna non sia finita e non sarà mai finita finché una donna dovrà scegliere tra maternità e lavoro, tra la propria realizzazione privata (che non è necessariamente la maternità) e quella professionale.

 

Lei è di casa nel Regno Unito. Come appare il mondo del libro, della letteratura e dell’editoria italiana da questa prospettiva? E la Brexit, in che modo ha cambiato le cose e le sta cambiando?

Da una decina d’anni vivo tra Londra e l’Italia e sono molto connessa con il mondo culturale italiano, anche perché ho sempre collaborato con giornali italiani, per la sezione culturale. In passato, per esempio, curavo una rubrica intitolata “Letture Facoltative” per il Domenicale del Sole-24Ore dove segnalavo ai lettori italiani libri particolari e interessanti che uscivano nel mondo anglosassone. Oggi collaboro con “Tuttolibri”, l’inserto culturale della Stampa, dove faccio principalmente recensioni e grandi interviste – direi più dei lunghi colloqui – con autori di narrativa inglesi o americani. In linea generale direi che l’Italia ha un tipo di editoria più prevedibile, perché gli italiani non sono dei lettori forti. In UK, forse anche grazie al vantaggio della lingua, la produzione è molto più variegata. Mi piace molto andare in libreria a scovare libri insoliti e soprattutto nel campo della saggistica si possono trovare cose curiose e piccole chicche editoriali che in Italia stanno scomparendo. Gli inglesi traducono molto poco: solo il 9 per cento di quello che viene stampato è tradotto da altre lingue, quindi facendo le debite proporzioni si può immaginare quanto poco sia conosciuta la letteratura italiana oltre Manica. Brexit comunque non c’entra, era così anche prima.

 

Lei collabora con il Ministry of Stories, il laboratorio di East London dove si insegna a bambini e ragazzi l’importanza della creatività, del racconto e della memoria. Che parola o parole riassumerà per noi l’anno della pandemia, che racconto ne faremo?

La parola che più rappresenta la pandemia per me è “disuguaglianza”. Questo anno ha messo a nudo le criticità della nostra società in generale e delle differenze tra individui in particolare. Disuguaglianza tra paesi poveri e ricchi, di trattamenti sanitari, di vaccini, di possibilità di apprendimento, di sopravvivenza addirittura. Sappiamo come la Dad sia stata vissuta in maniera diversa a seconda delle disponibilità economiche e tecnologiche delle famiglie. Lo stesso si può dire per i lockdown. Per alcune persone è stata una specie di vacanza, per altre un incubo racchiuso in 40 metri quadri di appartamento. Disuguaglianza tra grandi ricchi e le multinazionali che si sono arricchiti e i poveri che si sono impoveriti. Nel mezzo io vedo un grande magma di piccola e media borghesia impaurita, che sta scivolando verso soglie sempre più basse e colpita in maniera pesante dalla pandemia. Disuguaglianza anche tra chi ha un posto fisso garantito e chi è un autonomo – partita Iva, stagionale, lavoratore precario. Insomma, ovunque ci si giri, intorno non si vedono altro che disuguaglianze. E questo – come insegna la storia – non porta mai niente di buono.

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