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Sguardi italiani #1. Lorenzo Tugnoli
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Sguardi italiani #1. Lorenzo Tugnoli

Categorie: Cultura e creatività -Arti Visive

Un’intervista al fotografo italiano, vincitore del World Press Photo 2021 nella categoria “Spot news”.

a cura di Maria Teresa De Palma

Lorenzo Tugnoli, nato a Lugo e da anni di base in Libano, è tra i fotografi italiani ad aver vinto il World Press Photo 2021, con un servizio sull’esplosione avvenuta nel porto di Beirut nell’agosto scorso. L’abbiamo intervistato a proposito della sua esperienza di fotoreporter e del rapporto che ha con il Medio Oriente e il Centro Asia, luoghi d’elezione della sua pratica creativa e documentaria.

Anche quest’anno sei stato tra i finalisti del World Press Photo, vincendo il primo premio nella sezione “Spot news”. Nel 2019, con il tuo lavoro sullo Yemen, hai invece ricevuto il Premio Pulitzer per la categoria “Best Feature Photography”. Cosa significa per un fotoreporter ottenere riconoscimenti di importanza internazionale come questi? Qual è stato il loro impatto sul tuo lavoro – inteso ad ampio spettro, come pratica professionale e in generale di vita?

Si tratta, com’è naturale, di occasioni importanti. Il 2019, quando ho ricevuto il Pulitzer e il primo World Press, è stato un anno centrale in questo senso. In particolare, anche il rapporto che intrattengo con il “Washington Post”, il giornale con cui collaboro, è evoluto dopo l’assegnazione del Pulitzer. Al momento, lavoro stabilmente con loro, per un certo numeri di giorni all’anno, cosa che si riflette anche sulla libertà che ho di scegliere le tematiche dei miei progetti. In generale, i premi hanno un impatto abbastanza diretto, soprattutto all’inizio, e si tratta di momenti importanti non solo per me, ma anche per le agenzie, come Contrasto, e i giornali per cui lavoro: riconoscimenti cioè del lavoro di tutti, come nel caso del lavoro su Beirut. Questo è sicuramente un elemento di valore: ma è ugualmente importante mantenere l’attenzione sul fatto che noi facciamo fotografia non per ricevere riconoscimenti, ma per raccontare storie, per sviluppare una visione. Nel 2018, non avevo ancora vinto nessun premio, eppure la mia vita di fotografo non era poi così diversa da quella di oggi: la mia ricerca fotografica, il modo in cui lavoro giorno per giorno per cercare di migliorare la mia fotografia, rimangono inalterati. La pratica fotografica non deve cambiare.

Hai seguito gli eventi dell’agosto scorso a Beirut, l’esplosione del porto, qualcosa che la scrittrice Dominique Eddé ha definito un “attacco di cuore collettivo” e che sembra in qualche modo epitomare la situazione di difficoltà che il Libano tutto sta oggi vivendo. Puoi raccontarci la tua esperienza di questi luoghi, il lavoro che hai fatto per documentare l’evento?

Il lavoro su Beirut è un lavoro vicino al mio cuore: io abito in Libano, sono qui da qualche tempo, qui ho i miei legami. Quello che è successo quel giorno fatidico, il 4 agosto, è stato questo: ero a casa e ho sentito l’esplosione, il palazzo ha ondeggiato e si vedeva il fumo dalla finestra, un enorme fungo. Sono andato subito al porto e in qualche modo sono riuscito a entrarci, senza farmi fermare – in genere il porto è una zona militare, un luogo non facile dove scattare fotografie. Sono rimasto lì abbastanza tempo prima di andare a vedere la città. La parte distrutta era quella davanti al porto, ma dal porto, da quella prospettiva, non era chiaro quale fosse l’entità dei danni. È una cosa che ho visto successivamente, non mi era chiara inizialmente la geografia dei luoghi: il porto è molto grande, e non era facile, né immediato, capire quale fosse il centro dell’esplosione. Una volta che ho finito di fotografare nel porto, sono andato in una zona di Beirut est, famosa per i suoi locali, i suoi bar, i suoi ristoranti: una volta arrivato, sembrava Aleppo, dopo sei mesi di assedio. Sono stato lì per un po’ a fotografare. A quel punto era abbastanza buio, dovevo inviare le fotografie al giornale, e questo è quello che ho fatto, e che ho continuato a fare per le due settimane successive. Perché poi, ovviamente, la copertura dell’evento va avanti, e il lavoro che fai sulle fotografie si sviluppa nel tempo. La foto che è stata candidata come Foto dell’anno, in cui si vede questo signore ferito nel porto – che si chiama Elie Saib – è una foto che in realtà è stata ripescata in un momento successivo. Ed era una immagine che io non ho inviato in distribuzione quel giorno, il giorno dell’esplosione: per settimane, anzi per mesi, non ho avuto il tempo di tornare a guardare con più attenzione e con più calma le foto scattate il primo giorno. È un lavoro che ho fatto soltanto quando ho lavorato con Giulia Tornari, editor dell’agenzia Contrasto, alla selezione per il World Press Photo.

Quali altri filoni di ricerca stai sviluppando in Libano, considerando che il Paese sta vivendo appunto un periodo di grande fermento – seppure non sempre in positivo?

In Libano ho fotografato molto le proteste, che ho seguito prima e dopo il momento dell’esplosione. Ma al momento mi sto concentrando sull’Afghanistan. E questo per una serie di motivi: l’Afghanistan sta vivendo un momento molto importante della sua storia, di transizione e cambiamento, visto l’imminente ritiro delle truppe statunitensi. È un Paese che frequento da dieci anni, un luogo importante, e una parte molto rilevante del mio lavoro che vorrei cercare in qualche modo di chiudere. Ci tornerò sicuramente a breve, spero prima della fine del mese di aprile.

È interessante la differenza tra le pratiche fotografiche che applichi e in cui ti trovi a lavorare. Da un lato, lavorare così come hai fatto a Beirut, seguendo un evento improvviso, una “spot news”. E dall’altro, invece, lavorare su progetti a più lungo termine: stai pensando ora al tuo prossimo viaggio in Afghanistan e immaginiamo che le due settimane che precedono l’arrivo siano comunque fondamentali ai fini della preparazione. Puoi parlarci del tempo, questo fattore così variabile nel tuo lavoro?

Dipende appunto dal tipo di lavoro che si sta facendo. Quando si lavora per un giornale, in genere i tempi sono molto compressi, ed è un problema non da poco, perché spesso non dà la possibilità di approfondire, di sviluppare un progetto in tutte le sue potenzialità. In ogni caso, per quel che mi riguarda, riesco a lavorare con il giornale senza subirne grosse limitazioni. Per focalizzare invece l’attenzione sulla pratica quotidiana: dipende ancora una volta dal tipo di progetto che si sta seguendo. Prendo ad esempio l’ultimo lavoro che ho fatto in Afghanistan, pubblicato qualche settimana fa sul “Washington Post”: è un lavoro che racconta l’architettura della città di Kabul, il modo in cui la sicurezza ne ha cambiato radicalmente il volto, e che si sviluppa attorno alla cosiddetta Zona Verde, tentando di raccontare l’intersezione tra questa – il luogo cioè dove sono concentrate le Ambasciate – e la zona dove abita normalmente la gente. È un lavoro che ha preso molto tempo, soprattutto per una questione di permessi. E bisogna poi capire esattamente cos’è che si vuole da un lavoro di questo tipo: in quel caso, il punto era rappresentare dei luoghi. Quello che ho fatto, allora, è cercare di capire quali fossero i siti più interessanti, come si potevano fotografare, quali erano gli orari del giorno in cui sarebbe stato meglio recarsi sul posto. Piazza per piazza, strada per strada, ho cominciato a mappare in che punto si trovava il sole e a che ora; qual era il luogo che volevo fotografare, quale il momento migliore della giornata per ritrarlo. Per una serie di motivi legati soprattutto ai controlli e alle politiche di sicurezza, in genere non era possibile fotografare quei posti con continuità. Quello che abbiamo fatto allora è mappare tutti i punti che volevo fotografare, individuando uno specifico momento della giornata che fosse adatto allo scatto. In genere, naturalmente, occorreva tornare più volte sullo stesso luogo. Ma è qualcosa che serve un po’ anche a capire dove va il lavoro, quello che vuoi e che stai cercando.

A proposito di Afghanistan, un tuo progetto di qualche anno fa, “The Little Book of Kabul”, offriva una prospettiva fotografica diversa, chiamando a raccolta la scena artistica della capitale afghana. Puoi parlarci di quel progetto editoriale? È stato per te un modo di “scardinare” i discorsi fotografici usuali, i linguaggi che vanno cioè a sovrapporsi abitualmente a un soggetto come quello di un territorio in guerra?

Le fotografie di “The Little Book of Kabul” sono state scattate tra il 2012 e il 2013, il libro è uscito nel 2014. Un momento, cioè, in cui le forze americane, la NATO in genere, aveva ancora una presenza di terra molto forte, e la maggior parte dei fotografi che venivano in Afghanistan si concentravano su questo elemento: le immagini che uscivano dell’Afghanistan erano quelle, lavori che seguivano le truppe americane molto da vicino. La mia impressione era che ci fosse una mancanza di rappresentazione verso quella che era un’altra faccia del Paese. Questa problematica c’è, ovviamente: la mia relazione con il cliché della fotografia di guerra in Afghanistan, cosa è stata e cosa continua a essere. L’Afghanistan è un Paese che è stato molto rappresentato, anche prima che io nascessi. C’è sempre questo rapporto, e la coscienza del fatto di essere dei fotografi, di lavorare in Afghanistan, magari per grandi quotidiani americani. È ovvio, quindi, che si abbia a fare con un linguaggio visivo specifico, che è quello del fotogiornalismo. Bisogna allora pensare alla propria posizione rispetto a questo tipo di linguaggio, che è quello con cui sono cresciuto, guardando le fotografie della guerra in Jugoslavia, o i lavori di Paolo Pellegrin: un vocabolario visivo che è diventato il mio di riferimento. Ma ovviamente, quando si arriva in un luogo come l’Afghanistan, bisogna chiedersi quanto si è parte di quel vocabolario, e quanto e se sia giusto reiterarlo. Il libro era un po’ una riflessione su questo: volevamo cercare di non fare quello che stavano facendo tutti gli altri giornalisti. Il libro riguarda la scena artistica di Kabul in un preciso momento storico, ma il modo in cui abbiamo voluto strutturare il libro è frutto di una specifica posizione. Abbiamo cioè deciso di parlare non della scena artistica in quanto tale, ma di parlare di certe persone, della loro esperienza. E questo è servito per cercare di tenere sempre l’umanità e la realtà vicino alle nostre immagini. Per allontanarsi dalla spersonalizzazione che il giornalismo alle volte può comportare.

Quando hai parlato dell’immaginario visivo a cui ti relazioni, hai anticipato una delle domande che volevamo farti a proposito della tua educazione allo sguardo. Parlando del Libano, ad esempio, da studiosi della fotografia italiana, viene subito alla mente Gabriele Basilico, il suo lavoro su Beirut alla fine della guerra civile. Uno sguardo, certo, molto diverso dal tuo, che cercava in quel caso di raccontare i drammi della storia attraverso il vuoto delle architetture. In ogni caso, tornando a parlare di luoghi e di pratica fotografica, e del lavoro che è stato premiato al World Press Photo 2021: qual è il tuo rapporto con l’editor, e quanto interviene questa figura nella costruzione di una storia fotografica?

Dipende sempre dalla persona con cui si lavora. Io lavoro principalmente con due persone: Olivier Laurent, editor del “Washington Post”, e Giulia Tornari, dell’agenzia Contrasto, che ad esempio ha avuto un ruolo fondamentale nel lavoro su Kabul di cui ho parlato prima. Il rapporto che ho invece con Olivier è molto evoluto negli anni: lavoro con lui da tempo, ed è qualcosa che considero una fortuna, perché Olivier ha una sensibilità visiva molto vicina alla mia. E quando parlo di sensibilità visiva, intendo non solo un gusto della visione, ma anche uno specifico senso etico. Un esempio che posso fare in questo senso è relativo al lavoro che ho fatto in Yemen, che è stato poi premiato con il Pulitzer e il World Press. È un lavoro particolare, perché ruotava attorno a questa incredibile carestia che c’è ancora nel Paese. Quello che si doveva visualizzare era, quindi, anche la denutrizione: mi sono trovato a fotografare spesso in ospedali, in cui c’erano bambini in situazioni anche di grande sofferenza. Abbiamo dovuto allora impostare un discorso, riflettere sul modo di guardare a queste cose, un modo che fosse comunque moralmente giusto nei confronti di queste persone, questi bambini. Escluderli totalmente dalla rappresentazione, sarebbe stato difficile, ed è qualcosa che allora ho dovuto affrontare. Gli editor, in ogni caso, non hanno mai dato direttive specifiche o non hanno mai posto limitazioni forti al mio lavoro. Ma con loro ci sono momenti importanti, di confronto e discussione, in cui si può scegliere o riflettere su che cosa sia appropriato far vedere dal punto di vista dell’etica giornalistica.

Lavorare appunto “davanti al dolore degli altri”, la grande questione già posta da Sontag, sul valore morale e politico della fotografia, e sulle difficoltà che derivano dal lavorare in contesti di guerra o violenza. Qual è il tuo punto di vista sulla questione?

È qualcosa di molto importante, di cui parlare e su cui riflettere da un punto di vista non solo etico, ma anche un po’ filosofico: quale sia in genere il ruolo della fotografia, che tipo di fotografia vogliamo fare, e in che modo facciamo vedere i nostri soggetti. Perché, com’è ovvio, noi ci troviamo anche a costruire delle immaginazioni, delle iconografie: il modo in cui ad esempio fotografiamo gli afghani va poi a costruire un’immagine specifica di come sono gli afghani, la maniera in cui vengono a essere percepiti. I fotografi che vengono premiati, e che pubblicano sui giornali, hanno anche una responsabilità su come poi questi Paesi vengono rappresentati e sono quindi visti, percepiti. La rappresentazione è un atto molto importante perché in realtà corrisponde alla creazione stessa di un luogo: il luogo non esiste se non lo facciamo vedere, se non ne parliamo. È una responsabilità su cui, penso, non tutti i miei colleghi riflettono abbastanza. Non è solo una questione di sensibilità personale, d’altronde: in una professione come la nostra, siamo sottoposti a vari tipi di pressioni: ci sono le pressioni dei giornali, le pressioni dei premi, la pressione che viene dall’idea di dover realizzare un lavoro sempre più forte. Mantenere un equilibrio, avendo sempre a mente quale sia il vero scopo di quello che stai facendo, è quindi davvero necessario.

Chiudiamo con una curiosità: a fronte di un grande impegno programmatico all’estero, hai posato più di rado il tuo sguardo sul nostro Paese. Hai qualche lavoro di taglio più personale che riguarda i nostri scenari più vicini? Abbiamo visto della tua partecipazione al progetto “Musei Chiusi”, con le fotografie scattate a Fusignano: un’occasione che hai avuto per raccontare – tra l’altro – le difficoltà che tutti i professionisti della cultura stanno vivendo in questo momento.

No, in realtà, in Italia non ho progetti che seguo professionalmente. Il progetto sui musei è stata più che altro una collaborazione amicale. Quello che seguo in Italia è il filone espositivo, le mostre, l’aspetto di comunicazione del mio lavoro: un grande impegno necessario, ma che vivo in parte come tempo sottratto alla produzione vera e propria. Io mi ritengo un fotografo giovane, nel senso che sento il bisogno di passare del tempo sul campo, a fare fotografia, a migliorarmi. I premi – per tornare al punto di inizio – mi hanno dato la possibilità di trovarmi a lavorare sulle cose che mi interessano: ed è questo il momento di farlo davvero.

Si ringrazia l’Agenzia Contrasto, da cui Lorenzo Tugnoli è rappresentato, che ha reso possibile quest’intervista.

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