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Sguardi italiani #3. Antonio Faccilongo
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Sguardi italiani #3. Antonio Faccilongo

Categorie: Cultura e creatività -Arti Visive

Un’intervista al fotografo italiano, vincitore del World Press Photo 2021 con il progetto “Habibi”.

Antonio Faccilongo
Antonio Faccilongo

Antonio Faccilongo è un fotogiornalista e filmmaker italiano, da anni impegnato a seguire progetti documentaristici in Asia e Medio Oriente. Insieme a Lorenzo Tugnoli e Gabriele Galimberti, è tra i fotografi italiani ad aver vinto il World Press Photo 2021, con un progetto che racconta la Palestina contemporanea.

a cura di Maria Teresa De Palma

Dopo aver ricevuto il Foto Evidence Book Award 2020, il progetto “Habibi” ha vinto il primo premio al World Press Photo 2021, nella sezione “Story of the Year”. “Habibi” è progetto iniziato anni fa, divenuto anche libro fotografico, e che racconta di come le donne palestinesi, mogli di prigionieri politici che stanno scontando sentenze di lungo termine nelle carceri israeliane, ricorrano al contrabbando del seme per poter concepire figli. Una cronaca d’amor sofferto, ambientato nella Palestina contemporanea. In che modo riconoscimenti di questo tipo hanno impatto sulla tua pratica fotografica e in generale sul mestiere di fotoreporter? Puoi raccontarci l’origine di questi progetti?

Non è una domanda facile a cui dare risposta, e che mi riporta appunto alla genesi intima dei miei lavori. Raccontare la storia di “Habibi” è stata in effetti un’esigenza personale, nata da un’esperienza forte, intensa, che mi ha spinto e in qualche modo obbligato, a un certo punto, a continuare a seguire le vicende di quel territorio. Nel 2008, quando per la prima volta mi sono recato in quei luoghi, mi occupavo ancora di cronaca locale, lavorando per un giornale romano come “Il Messaggero”. Un viaggio legato in origine, quindi, non a motivazioni professionali, ma a obiettivi umanitari, in un territorio tradizionalmente segnato da difficoltà e conflitti. È stato allora, in effetti, che la popolazione locale si è trovata a dover fronteggiare un momento di grande tensione, a seguito del relativo equilibrio che si era raggiunto dopo la seconda intifada. Vedere e vivere il conflitto così da vicino, senza alcun filtro, è qualcosa che ha avuto un impatto emotivo fortissimo su di me, in quel momento. Un’esperienza che mi ha quindi toccato più di qualsiasi riconoscimento a posteriori. I concorsi e i premi sono poi arrivati come conseguenza di determinate scelte, più o meno fortunate, più o meno giuste: ma alla radice del progetto, c’è stata innanzitutto l’esigenza umana di capire queste persone. Donne e bambini che, dopo la guerra, si trovavano a dover vivere senza padri, figli o mariti – figure fondamentali anche perché, spesso, responsabili del sostentamento materiale e uniche fonti di reddito per la famiglia. In quel periodo, avevo letto una statistica, probabilmente eccessiva, ma che ha avuto comunque un peso fondamentale nell’orientare la mia ricerca, e che raccontava di come il 40% circa degli uomini che si trovavano nei campi profughi fossero stati arrestati. È stato allora che mi sono chiesto che cosa succedesse, da un punto di vista umano, a questi nuclei familiari. I concorsi sono arrivati in un momento successivo. Non ho mai pensato di produrre immagini per assecondare certe pratiche di pubblicazione, o andare incontro ai premi internazionali. In questo lavoro, anzi, ho cercato di esprimermi con un linguaggio molto personale, che non ricalca a pieno gli standard dell’editoria fotogiornalistica – a partire, ad esempio, dal formato quadrato scelto. Eppure è un lavoro che ha avuto e sta avendo un’ottima diffusione, come se il fatto stesso di aver optato per un linguaggio nuovo, e di essere uscito da determinati standard, sia diventato un valore aggiunto. “Habibi” cerca di proporre una visione differente di un territorio che è invece spesso oggetto di una monovisione, che semplifica o traduce in un’unica direzione le vicende raccontate e le culture coinvolte. Una scelta peculiare, che è forse all’origine del successo di questa storia, sia nelle pubblicazioni che nei concorsi. In ogni caso, è una storia nata davvero per esigenze intime, e che ho poi seguito negli anni in maniera attenta e costante. In modo piuttosto naturale, è stata questa cioè la storia su cui nel corso degli anni ho convogliato le mie attenzioni, e che ho cercato di promuovere a livello editoriale, facendone un po’ la mia bandiera – e tentando di volta in volta di aggiornarlo, aggiungendo sfumature, e puntando su un tono che non fosse prettamente descrittivo, ma invece evocativo degli elementi che credevo più importanti.

Di recente, sei stato anche tra i selezionati del “National Geographic Society Covid-19 Emergency Fund” con il progetto “All for Love”. Un lavoro allo stato ancora progettuale, e che si concentra sulle difficoltà incontrate dalle madri, nel loro percorso di gestazione, durante la crisi pandemica che stiamo attraversando. Puoi raccontarci qualcosa in più sul lavoro? Che cosa significa, da un punto di vista tecnico e umano, progettare e costruire una storia per immagini di lungo corso? Quali le modalità e i criteri utilizzati nella scelta e nell’assemblaggio dei materiali raccolti?

Inizierei da “All for Love” e dal tipo di fotografia che in questi mesi ha tentato di raccontare la pandemia. La crisi del Covid-19 è un evento di importanza capitale, che ha coinvolto davvero e sta coinvolgendo l’intero pianeta, ma che ha spesso dato corso a progetti fotografici lontani dalle mie inclinazioni. Come tutti, ho vissuto con grande preoccupazione il contesto sanitario di questi mesi, tentando di limitare al minimo i miei spostamenti – e guardando con poco coinvolgimento i progetti visivi che venivano a essere prodotti. La pratica e la riflessione fotografica sul Covid ha poi vissuto un’evoluzione in positivo, ma io per lungo tempo ho continuato a sentirmi poco coinvolto, pure sentendo il peso di questa limitazione e la responsabilità di dover dare atto e testimonianza di un evento narrativamente centrale nella nostra esperienza. Ho iniziato quindi a cercare qualcosa, seguendo lo stesso approccio che ho scelto per i territori in guerra. Volevo cioè concentrare la mia attenzione non sulla “prima linea”, ma su tutto quello che succede in qualche modo dietro di essa. Come nel caso dei miei reportage in territori di conflitto, ho scelto cioè di raccontare non direttamente la guerra, ma le conseguenze che questa ha sulla popolazione locale. Si trattava di applicare lo stesso approccio, focalizzando l’attenzione sulle conseguenze psicologiche che una crisi come quella del Covid-19 ha indotto nelle persone. Ho letto poi una ricerca sviluppata dall’Università La Sapienza di Roma, secondo cui il numero di morti perinatali in Italia è in notevole aumento: nel solo Lazio, il numero era aumentato, nell’anno della pandemia, di 3,5 volte – un numero che arriva invece a 5 in Inghilterra, e a 100 in un territorio come l’India. Si tratta d’altronde di una crescita legata non direttamente al virus, ma a fattori altri, come la mancanza di assistenza o l’accumulo di stress fisico e psicologico che la pandemia comporta sui nostri corpi, e che spesso ha conseguenze irrimediabili nel percorso gestazionale. Questa l’origine del lavoro che sto sviluppando per il “National Geographic”, e un esempio di come arrivo in generale a scegliere le mie storie. Negli ultimi anni, ho capito sempre più l’importanza di concentrarmi su storie e progetti personali, al di là degli interessi dei committenti – giornali, fondazioni o organizzazioni non governative. Al centro delle mie storie, c’è sempre un coefficiente di emozionalità, e il mio tentativo è sempre quello di raccontare me stesso tramite le storie altrui. “Habibi”, la storia che quest’anno ha vinto il World Press Photo, è stata fondamentale per me nell’evoluzione del mio linguaggio: mi ha permesso di capire che, per esprimermi a un certo livello e per essere alla fine soddisfatto del mio lavoro, non posso fare a meno di tutta una serie di elementi capaci di raccontare emozioni e atmosfere. Oltre alla pura immagine fattuale, ho bisogno di immaginare ritratti e contesti capaci di far arrivare un’emozione a chi guarda. Nei miei progetti personali, questo è un elemento che non deve mai mancare: investo tempo e energie in un lavoro di lungo corso solo se riesco a individuare questa chiave, e si tratta sempre di storie tendenzialmente non conosciute, o in grado di illuminare aspetti e sfumature poco note di contesti invece già narrati. E centrali rimangono le emozioni di coloro che vivono queste stesse storie. Si tratta di una sorta di romanticismo: ho capito che senza questo elemento, senza questo tipo di approccio affettivo, non riuscirei a produrre lavori qualitativi, o a raggiungere determinati livelli di intensità o spessore espressivo.

E in effetti quando guardiamo le foto di “Habibi”, ci rendiamo subito conto che hai scelto un taglio piuttosto lontano dai modi in cui siamo abituati a leggere visivamente un territorio legato alla guerra, al conflitto. Hai optato cioè per un’altra prospettiva. Il fotogiornalismo, negli ultimi anni, ha d’altronde conosciuto un’evoluzione interna delle proprie grammatiche, smarcandosi dai paradigmi propri alla narrazione naturalistica e perseguendo invece nuove modalità – ora scenico-registiche, come nel caso di Gabriele Galimberti, ora emozionali, come nel tuo caso.

Come tutti i piccoli o grandi cambiamenti, anche questo prevede e ha previsto in qualche modo l’inaugurazione di un nuovo filone di ricerca, spesso in netto contrasto con modi e linguaggi più tradizionali. È un tipo di contrasto che però personalmente non vivo, e non condivido. È vero: forse, trovo più interessante guardare lavori come quelli di Antoine d’Agatà, che ha raccontato la storia della pandemia da Covid-19 secondo modalità più vicine alla fotografia d’artista che a quella documentaria. Nel suo progetto, “Virus”, le immagini sono state scattate con un sistema di rilevamento della temperatura, che ha permesso di ritrarre i soggetti fotografati come macchie di colore, rosse o arancioni, in un mondo blu, più freddo. È un lavoro che non mi immagino pubblicato ad esempio sul “Time”, perché lontano dal tipo di comunicazione diretta che quel tipo di rivista persegue. Eppure, è un tipo di documentazione che trovo più interessante, per mio gusto e inclinazione personale: un approccio visivo che suscita riflessioni e interrogativi. Allo stesso tempo, reputo egualmente importanti i progetti di tipo più tradizionale, come i reportage sulle vicende di Codogno: si tratta in entrambi i casi di linguaggi in grado di raccontare la storia, entrambi meritevoli di attenzione e di spazio. Se focalizziamo l’attenzione poi sul sistema dei premi, è interessante notare come il World Press Photo avesse provato, già dieci anni fa, a incoraggiare nuove forme di sperimentazione. Pensiamo al lavoro di Pietro Masturzo, che nel 2010 ha scelto una prospettiva del tutto inedita per raccontare le elezioni presidenziali in Iran, ancora una volta focalizzando l’attenzione non sulla ripresa diretta di fatti ed eventi, ma su un’ideale “seconda linea”. Ci sono stati poi una serie di tentativi, seguiti a quell’edizione del World Press, che hanno portato anche a una regressione, a un impoverimento dei linguaggi, e al superamento di un certo limite etico che invece il fotogiornalismo dovrebbe sempre porsi – essendo fondato su un implicito patto tra autore e spettatore.

Ancora su “Habibi”, e sull’approccio stilistico adottato: in questo lavoro, sono spesso le cose, presenze a volte fortemente estranee al contesto, colte nella loro pura essenza oggettuale, a parlare: una scelta quasi di pudore, che riprende l’atmosfera di generale sospensione che si respira nel reportage. È un taglio particolare, anche rispetto a un tuo precedente progetto, “Single Woman”, che raccontava gli stessi luoghi, gli stessi temi, ma in una maniera più vicina ai canoni della ritrattistica. Puoi parlarcene brevemente?

Tra “Single Woman” e “Habibi” è intervenuto un fattore fondamentale: la mia migliore conoscenza del contesto e della cultura locale. Conoscere e comprendere la cultura del luogo in cui stai lavorando, permette di vedere e cogliere nuove sfumature di senso. È stato questo approfondimento, questa maggiore conoscenza, che mi ha portato a chiedermi in che modo fosse possibile trasmettere queste sfumature, questi elementi più sottili, a uno spettatore interessato al tema. Prendiamo ad esempio l’immagine della barchetta posata sulle acque del Mar Morto, una barchetta costruita da uno dei detenuti di cui racconto la storia. È un’immagine volutamente allusiva, un tipo di visione che lo spettatore, solitamente, apprezza o rifiuta, senza vie di mezzo. “Habibi” è un lavoro interamente costruito su pochi elementi reali, e su molti elementi invisibili, come lo still life di cui sto parlando. Ho cercato così di raccontare l’assenza, la presenza dell’assenza, la malinconia, il senso di nostalgia, e allo stesso tempo la dignità, la speranza per il futuro, la positività che i bambini nati in simili, difficilissimi, contesti, possono portare. La barca è una delle simbologie più forti del Corano: un elemento che serve appunto per colmare la distanza tra due persone che si vogliono bene, tra due amanti. I detenuti le realizzano con i materiali di scarto che hanno a disposizione in carcere, come le scatole di merendine, riciclandone piccole parti. Barchette che donano poi alle loro famiglie, e che trasmettono un messaggio forte di speranza: torneremo, i nostri cuori sono uniti. Inserire still life di questo tipo è stato quindi un modo per raccontare aspetti che sarebbero altrimenti rimasti al puro stato di traccia, soltanto nella mia memoria: volevo invece che questi elementi potessero essere trasmessi, comunicati, con la stessa delicatezza e lo stesso pudore con cui io ho potuto incontrarli. Ho fatto una scelta specifica: quella di costruire una narrazione incentrata sull’amore, e questo anche per tentare di superare certe barriere di resistenza culturale, o immagini stereotipiche che l’Occidente inevitabilmente produce del mondo arabo. Si tratta invece di una cultura molto accogliente, molto mediterranea e vicina alla nostra, per certi versi. Ho scelto quindi questa forma narrativa per andare contro a un certo stereotipo, e per portare avanti una modalità percettiva imperniata sulla dolcezza, sull’evocazione, sull’affettività. Alcune immagini lo permettevano più direttamente – come il ritratto della donna che abbraccia suo figlio sull’autobus, mentre si reca in visita al carcere. In altri casi, ho avuto bisogno di ricorrere a immagini meno dirette, nate anche per caso: il ritratto del bambino con una scatola di cartone sulla testa, utilizzata come ombrello, mentre ci trovavamo a giocare in giardino. Un ritratto istantaneo, che riesce però in qualche modo a comunicare anche il senso di soffocamento, l’atmosfera da prigione a cielo aperto tipica di un campo profughi.

Fotografia e attualità: molti dei temi cardine dei tuoi lavori hanno una loro urgenza, rispondono a domande e questioni fondamentali, all’ordine del giorno nel dibattito contemporaneo. Penso al racconto, di matrice “ecologica”, sulle ultime foreste vergini in Europa; al lavoro documentario sul genocidio dei Rohingya in Myanmar; a quello che sei riuscito a dire della condizione femminile in un Paese come l’Etiopia. Temi spesso delicati, a volte predati da processi di appiattimento, quasi di usura linguistica: in che modo la fotografia, l’approccio visuale, può articolare una discorsività complessa attorno a nodi controversi o difficili come questi? Qual è, in breve, la cifra “etica”, di responsabilità, insita nel tuo lavoro?

Io sono convinto che uno degli aspetti più importanti del nostro lavoro sia quello di essere la voce di qualcun altro, qualcuno che da solo non riuscirebbe a esprimersi – perché magari non ne possiede i mezzi economici o culturali. Sono quindi convinto che, come fotogiornalisti, abbiamo una missione etica rispetto alle realtà complesse e difficili che incontriamo in giro per il mondo. Al tempo stesso, non sono purtroppo convinto che la fotografia, e il suo pubblico, possano ancora essere pienamente percettivi rispetto a temi di questo tipo. Al giorno d’oggi, siamo tutti un po’ abituati, soprattutto nel mondo occidentale, a un certo tipo di violenza, che giustifichiamo come normalità, e che passa quasi in sordina nel sistema mediatico, senza più attrarre l’attenzione. Se quella violenza, quelle situazioni complesse, riuscivano prima a suscitare indignazione, oggi non sembra più essere così. È diventato tutto normale, quasi una consuetudine. I tempi in cui le persone scendevano in piazza perché avevano visto le immagini del Vietnam, temo siano oramai passati. Negli anni, ho purtroppo sviluppato un approccio un po’ disincantato da questo punto di vista. Se un tempo, con i miei lavori, pensavo di poter in qualche modo suscitare una reazione nello spettatore, ora tento più che altro di focalizzarmi sulle persone coinvolte nella storia che sto raccontando. Non credo di poter cambiare la realtà di quelle persone, ma penso e spero di poter fare qualcosa perché la loro storia non sia completamente ignorata. Perché spesso è da uno stato di dimenticanza, cancellazione o abbandono, che nascono i problemi, gli estremismi. Come fotografi, e come fotografi italiani e occidentali che si muovono nel mondo, abbiamo il dovere di portare in questi luoghi la migliore immagine di noi, della nostra cultura, tentando al contempo di dare voce e di fare vedere l’altro, e l’altrove, per come sono realmente. Senza falsificazioni, senza manipolazioni, ma invece adottando il giusto rispetto, e le giuste distanze.

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