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Un mondo in cui tutto diventa editoria. Intervista a Giacomo Papi
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Un mondo in cui tutto diventa editoria. Intervista a Giacomo Papi

Categorie: Cultura e creatività -Editoria e Letteratura
Giacomo Papi
Giacomo Papi

a cura di Laura Pugno

Scrittore, giornalista e autore televisivo, Giacomo Papi è il nuovo direttore del Laboratorio Formentini per l’editoria, lo uno spazio  per la valorizzazione del lavoro editoriale della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, che ha il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale tra i suoi partner istituzionali.

 

Come racconterebbe l’attività del Laboratorio Formentini alle nostre lettrici e lettori in Italia e all’estero, e in particolar modo le vostre attività di rilievo internazionale? Quali saranno le linee guide del suo mandato?

Milano è la città dove l’editoria è nata e si è sviluppata nel Novecento. È la città italiana, cioè, più legata all’editoria internazionale e agli scrittori stranieri. Ha già intense e ormai secolari relazioni con l’estero. Il Laboratorio Formentini è lo spazio messo a disposizione dal Comune, e gestito dalla Fondazione Mondadori, per fare vivere l’editoria e capire in che direzione sta andando. Sono convinto che in un mondo in cui tutti scrivono e pubblicano, tutti editano e tutto, in un certo senso, diventa editoria. Per questo penso che l’editoria abbia il dovere e il bisogno di ripensarsi. Per questo oltre agli incontri con scrittori stranieri – il 7 giugno, per esempio, ospiteremo un incontro tra lo scrittore svedese Björn Larsson e la sua editrice italiana Emilia Lodigiani – vorrei che il Formentini diventasse il laboratorio dove ripensare il significato sociale, e perfino politico, che ha oggi pubblicare un testo. Continueremo a ospitare le associazioni milanesi che lavorano su questi temi, le mostre e i convegni della Fondazione Mondadori, e parallelamente faremo incontri e corsi, non solo in sede, ma anche aperti al pubblico, con l’idea che oggi l’editoria non riguarda più soltanto le case editrici, ma chiunque abbia qualcosa da dire e rendere pubblico.

 

Prima del Laboratorio Formentini, lei ha diretto la Scuola di Scrittura Belleville di Milano. Esiste una domanda di insegnamento della scrittura dell’italiano all’estero? In che modo, eventualmente, si collega al crescente interesse che negli ultimi anni si riscontra nel mondo per la nostra lingua?

Ho conosciuto studenti stranieri che, per perfezionare l’italiano, si iscrivevano a corsi di scrittura. E so che a Londra e Parigi scrittori e scrittrici italiane tengono corsi di scrittura per italiani, ma anche per inglesi e francesi che vogliono avvicinarsi alla lingua. L’idea di imparare una lingua attraverso la sua letteratura è molto interessante: Borges diceva di avere imparato l’italiano leggendo Dante e mi sarebbe piaciuto moltissimo sentirlo parlare. Fino a ora, però, l’interesse per la lingua italiana a cui lei accenna si è scontrato con un’impossibilità oggettiva, dovuta alla distanza.

 

In che modo la recente, e ancora presente, esperienza della pandemia ha influito sulla proiezione internazionale dell’editoria italiana? Tutti desideriamo recuperare la dimensione della presenza, tuttavia, è possibile che i nuovi strumenti digitali – tra cui ad esempio il portale New Italian Books – abbiano consentito di integrare le relazioni internazionali nella dimensione quotidiana di chi scrive, pubblica, comunica il libro in Italia e fuori Italia?

Quello che è accaduto in questo anno terribile, è che abbiamo imparato in massa e a una velocità impressionante a usare gli strumenti digitali per lavorare e incontrarci. Quando tutto sarà finito, inizialmente ci sarà un rifiuto, ma subito dopo torneremo a utilizzare i computer come una modalità ulteriore di incontro, lavoro e formazione. La distanza tra le lingue diminuirà. Avremo una possibilità in più, non in meno. Non so se questo sia legato alla salute dei libri italiani all’estero, che vengono tradotti molto più di dieci anni fa. Certamente il digitale, di cui oggi siamo saturi, consente di integrare queste relazioni anche lavorative ed editoriali, proprio a partire dalla parola scritta. Mi è capitato, per esempio, di assistere a incontri tra scrittori stranieri e di scoprire che agli incontri da me organizzati partecipavano stranieri emigrati in altri Paesi stranieri desiderosi di ascoltare e imparare l’italiano. Ho anche il sospetto che quest’anno, per gli italiani che vivono all’estero, il rapporto con la lingua italiana sia cambiato. La pandemia ha suscitato maggiore attenzione e una nostalgia più intensa. Per questo sto pensando di organizzare in occasione di Bookcity la prima Internazionale degli scrittori italiani espatriati, proprio per discutere anche scherzosamente del rapporto con la lingua lontana. In fondo la lingua italiana è nata con Dante, quindi è nata in esilio.

 

 

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