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Intervista a Marco D'Agostin, giovane artista di danza e performance
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Intervista a Marco D’Agostin, giovane artista di danza e performance

Categorie: Cultura e creatività -Musica e spettacolo
Al termine della sua residenza artistica in Argentina, il danzatore debutta a Buenos Aires con il suo spettacolo "Avalanche".
Marco_DAgostin retrato

Sei giunto ormai al termine della tua residenza artistica in Argentina. Come hai vissuto questo periodo?

In uno stato costante di sorpresa e commozione. Questa città, il cui fermento elettrico sembra non sostare mai, è abitata da persone che sanno come amare. Non riesco a descriverlo in altro modo, questo sentimento che mi ha accompagnato. C’è una specie di intesa comune verso la felicità, e da estraneo diventa inevitabile provare a intonarsi.

Collaborare con gli Istituti Italiani di Cultura è una bella occasione per far conoscere la propria arte nel mondo. E’ la prima volta che collabori con la nostra rete? In quali altre parti del globo ti piacerebbe esportare la tua arte?

In passato, molte altre mie attività di residenza o tournée sono state sostenute dagli Istituti Italiani di Cultura e sono fermamente convinto che la loro progettualità sia fondamentale per gli artisti dello spettacolo. Per le opere “viventi” è fondamentale conoscere contesti esterni all’Europa: incontrare pubblici e comunità diversi e distanti, che invitano a correggere continuamente la propria postura e che chiedono al lavoro di farsi permeabile, di adattarsi, in un continuo esercizio empatico. In questo momento penso che mi piacerebbe approfondire meglio la conoscenza del Sud America: sento un richiamo molto istintivo.

Come mai, tra i vari spettacoli di cui sei autore, hai deciso di portare a Buenos Aires proprio “Avalanche”?

È una decisione maturata con Elisabetta Riva del Teatro Coliseo, che ha fortemente voluto la mia presenza qui. Credo che fosse la decisione migliore visto che si tratta del primo progetto che presento al pubblico di Buenos Aires: riassume molte cose che mi rappresentano. C’è un lavoro sul corpo legato alla memoria, un rapporto molto forte con la voce e il testo che ho poi sviluppato in tutti i miei spettacoli successivi, e bascula tra due registri, l’uno più popolare (legato a una certa cultura pop) e l’altro più universale, legato all’umano in senso più ampio. E poi perché è interpretato con me da Teresa Silva, formidabile danzatrice portoghese.

Come nasce il tuo linguaggio artistico così originale, e quali sono le tue fonti di ispirazione?

È una domanda molto difficile a cui rispondere. Non so se il mio linguaggio artistico sia davvero originale. Ragiono raramente sul linguaggio o sulla poetica in generale, mi viene invece naturale chiedermi, ogni volta che creo uno spettacolo, di quali strumenti specifici abbia bisogno quel preciso progetto: da lì procedo, tentando di essere rigoroso ma allo stesso tempo non perdendo mai la giocosità nei confronti della materia. Ci sono di sicuro delle cose che ricorrono (ad esempio un certo modo di usare il testo, un’ostinazione nel mettere il corpo di fronte alla memoria, la curiosità per i modi con cui il pubblico viene invitato a guardare una performance), ma mai in modo programmatico. E anche per quel che riguarda le mie fonti di ispirazione, direi che c’è di tutto: dalla letteratura, sia di prosa che di poesia (la Munro e la Rosselli sono tra le mie artiste preferite), alla musica al teatro e ovviamente alla danza. Ma anche l’ispirazione è una cosa che accade mio malgrado, non è un’azione che compio: quello di cui fruisco da lettore, spettatore o ascoltatore alimenta in me il desiderio di fare, di creare, e l’ambizione di offrire almeno alcuni secondi di grazia e luminosità.

Qual è la risposta del pubblico alle tue performance, e quale è stata in particolare di quello argentino?

Il pubblico argentino ci ha stupiti per l’attenzione estrema, la curiosità, l’intesa direi sentimentale prima ancora che intellettuale. Anche se non esiste mai “un pubblico”: ovunque presentiamo il nostro lavoro, anche in quei contesti dove ci sembra di poter conoscere qualcosa del contesto culturale, ci rivolgiamo sempre a delle individualità, a delle storie e delle sensibilità specifiche, nei confronti delle quali le nostre capacità di capire cosa stia accadendo sono molto limitate. Questo mistero rende sempre l’incontro con il pubblico un enigma, un appuntamento romantico.

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Avalanche Marco DAgostin

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